I primi studi sull’utilizzo di Cannabis e i possibili danni cerebrali correlati

I possibili effetti avversi e rischi legati all’assunzione della Cannabis hanno iniziato ad essere oggetto di studi scientifici intorno agli anni ’70 a partire dal fatto che gli stessi consumatori di cannabis si lamentassero di problemi di memoria, concentrazione, perdita di motivazione, paranoia, depressione, dipendenza e letargia e che tra le persone che consumavano marijuana abitualmente e in grosse dosi vi era chi sviluppava una “sindrome amotivazionale”, caratterizzata da passività, demotivazione e ansia.

I ricercatori tuttavia riscontravano, al massimo, piccole differenze cognitive fra i consumatori cronici di marijuana e i non consumatori, e i risultati tendevano a differire sostanzialmente da uno studio all’altro.

Una prima seria revisione é stata quella di  Lynn Zimmer & John Morgan “Marijuana Myths Marijuana Facto. A review of the scientific evidence.” (New York/San Francisco: The Lindesmith Center, 1997). I due ricercatori hanno riesaminato i dati emersi dagli studi svolti nei 30 anni precedenti dai quali emergeva che il processo cognitivo più chiaramente colpito dalla marijuana fosse la memoria a breve termine. Negli studi di laboratorio, infatti, i soggetti sotto l’influenza della marijuana non mostravano problemi a ricordare le cose imparate in precedenza. Tuttavia,  mostravano una diminuita capacità di imparare e richiamare nuove informazioni. Questa diminuzione durava per tutta la durata dell’intossicazione. Tuttavia la revisione delle ricerche effettuate non permetteva di stabilire precisamente l’entitá e la permanenza dei danni da consumo cronico perché i risultati differivano sostanzialmente da uno studio all’altro.

Altra fonte rigorosa proviene dalla revisione svolta nel 1998 dall’House of Lords Select Committee on Science and Technology (Cannabis. The scientific and medical evidence. London: The Stationery Office, 1998): gli psichiatri del Royal College of the Royal Society of Psychiatry passarono in rassegna tutti gli studi sugli effetti a lungo termine dell’uso di Cannabis con la consulenza di uno dei massimi esperti sul campo, il Dr Jan van Amsterdam dell’Istituto Nazionale Olandese per la Salute Pubblica e per l’Ambiente, giungendo alla conclusione che la Cannabis può avere effetti indesiderati a lungo termine sulla performance cognitiva, ovvero le prestazioni del cervello, particolarmente nei forti consumatori, i quali mostravano un significativo indebolimento nei compiti che richiedono elaborazioni complesse di nozioni apprese (le cosiddette funzioni “direttive” del cervello).

Al tempo stesso misero in evidenza  le difficoltà pratiche di stabilire eventuali effetti residui. Esse includono la impossibilità di ottenere valori di base precedenti all’uso della droga (p.es. misure delle funzioni cognitive del soggetto prima del loro primo uso di cannabis), la difficoltà di stimare la dose di droga assunta, la necessità di un lungo periodo di “ripulitura” dopo la cessazione dell’uso per tener conto della lenta eliminazione della cannabis residua dall’organismo, e la possibilità di confondere i deficit a lungo termine con gli effetti dell’astinenza.

Successivamente, Nadia Solowij  e Brin Greyner (Long term effects of cannabis on psyche and cognition. In: Grotenhermen F, Russo E, eds. Cannabis and cannabinoids: pharmacology, toxicology and therapeutic potential. Binghamton, NY: Haworth Press, 2001) elaborano una ulteriore revisione della Letteratura sull’argomento, giungendo alla conclusione che la natura dei deficit cognitivi come rilevata dai tests psicologici suggerisce che i consumatori a lungo termine hanno prestazioni ragionevolmente buone nei compiti abituali della vita quotidiana, benché possano essere più distraibili. È possibile incontrare difficoltà nell’esecuzione di compiti complessi che sono nuovi o non possono essere risolti dall’applicazione automatica di conoscenze precedenti, o con compiti che si basano molto sulla componente memoria, o richiedono pianificazione strategica, o l’esecuzione di più compiti contemporaneamente.

 

La “nuova Cannabis” aiuta paradossalmente la ricerca

Non molti forse sanno che negli ultimi dieci anni, i progressi scientifici nella conoscenza del meccanismo d’azione della Cannabis sono stati anche paradossalmente favoriti dalla selezione ed immissione in commercio di varietà di Cannabis coltivabili in serra o in condizioni idroponiche, che forniscono un titolo di THC (15-20%) 20-40 volte più elevato di quello della Cannabis endemica (0.5-1%).

L’introduzione di queste varietà ha letteralmente cambiato lo status della Cannabis come droga. È un po’ quello che è successo con l’introduzione dell’eroina al posto dell’oppio o della cocaina base, volatile e da fumare (crack) al posto della cocaina cloridrato da sniffare.

L’introduzione delle varietà di Cannabis da coltura idroponica o in serra (es. skunk) ha svelato la vera natura della Cannabis, come il suo impatto sulla guida, la capacità di indurre dipendenza (con un forte aumento in Olanda e in Inghilterra, dove le varietà tipo skunk sono particolarmente diffuse, dei soggetti richiedenti un trattamento di disassuefazione), la compromissione a lungo termine delle funzioni cognitive e della memoria e infine, l’insorgenza, in individui predisposti, di sintomi schizoidi.

Il punto é che tutto questo era ampiamente prevedibile sulla base delle conoscenze scientifiche sulla Cannabis, ma l’assunzione di queste varietá di Cannabis ha funzionato come una lente di ingrandimento sugli effetti del tetraidrocannabinolo.

Ora, l’ultima frontiera in questo campo è l’introduzione dei derivati sintetici e volatili dei recettori cannabinoidi, che, sotto il nome di Spice, potevano essere liberamente acquistati su Internet fino a che non sono stati inseriti in Tabella 1, in compagnia dell’eroina e della cocaina.

Dunque la ricerca ha potuto chiarire molti dei dubbi circa gli effetti avversi dell’utilizzo cronico di Cannabis. Vediamo quali.