Con un partner violento l’empatia non serve. Usiamola, invece, per salvarci la pelle.

«Un uomo aggressivo è un animale ferito. Mettendosi nei suoi panni, si evita la tragedia», suggerisce una lettrice.
Un’ipotesi discutibile. Perché una donna maltrattata ha emozioni disturbate, spiega la psichiatra Erica Poli.

Articolo di Silvia Gavino per il settimanale F

 

Se ci seguite tutte le settimane, non vi sarà sfuggita la rubrica Lettere alla Direttrice del numero 12, intitolata Femminicidio: anche fra noi donne a volte c’è traccia del peggior pensiero maschilista. Giuliana, la nostra lettrice, si interroga se l’empatia femminile non possa servire a mediare un conflitto con un uomo violento. O, per lo meno, a non peggiorare la relazione con comportamenti pericolosi, come provocazioni capaci di scatenare in lui rabbia, gelosia, invidia che possono aprire la strada a gesti folli e irreversibili. Insomma, suggeriva Giuliana: mettiamoci nei panni di un marito violento che stiamo lasciando ed evitiamo di farci vedere sotto casa da lui con il nostro nuovo compagno. La direttrice, Marisa Deimichei, vede in questo pensiero un’impronta maschilista e ribadisce che la responsabilità delle emozioni malate è di chi le prova così come di qualsiasi gesto insano possa seguire a un’esplosione interiore.

Altre lettrici sono d’accordo con lei, ma Giuliana insiste. «Non intendo deresponsabilizzare i carnefici, ma responsabilizzare le vittime perché si riprendano in mano la vita», scrive in un’e-mail successiva. Sostiene che i comportamenti di follia maschile non solo non vadano sottovalutati, ma, proprio attraverso l’empatia, si possano prevedere per mettersi in salvo. E chiede il parere di Erica Francesca Poli, la psichiatra e psicoterapeuta che risponde alle lettere del nostro giornale.

Ecco il suo punto di vista.

 


 

Cara Giuliana, è vero, le donne sono più empatiche degli uomini. Ma usare questa qualità nei confronti di un partner violento, è una faccenda delicata. Credimi, parlo per esperienza: ho lavorato sette anni al Soccorso violenza sessuale e domestica della Mangiagalli di Milano e sono tutt’oggi perito del Tribunale di Milano. Facendo terapia a tante donne violentate o maltrattate, ho visto che per farle uscire dallo stato di vittime è fondamentale aiutarle a diventare consapevoli del ruolo che avevano giocato con il partner. Provocandolo, per esempio. Oppure giustificandolo in nome di un sentimento che chiamano amore. O, più spesso, entrambe le cose. Ma questo “viaggio” si può fare in psicoterapia, uno spazio protetto, dove le emozioni e le ragione inconsce contano più dei fatti. Al contrario, fuori dalle sedute, sono i fatti a fare la differenza ed è fondamentale che i comportamenti violenti vengano riconosciuti come tali e sanzionati.

La violenza non va mai accettata

L’atto brutale deve essere sempre condannato. È vero che a compierlo spesso c’è un uomo con un’anima offesa. Ma non significa che chiunque soffre sia autorizzato a far male agli altri. Condannare il comportamento è il primo passo per proteggere la vittima, ma anche per aiutare il persecutore. Lo sostiene anche l’organizzazione norvegese ATV (Alternative to Violence) con cui ho lavorato, punto di riferimento per il recupero dei maltrattanti. Il loro programma di intervento stabilisce che se il maltrattante non riconoscere di aver commesso un reato non ci può essere, nessuna mediazione.

Concorda Marianne Hester, criminologa britannica di grande esperienza. Tutto questo accade perché il maltrattamento ha una dinamica ben precisa e ormai nota, dove ogni attore recita la sua parte. Da un lato c’è il violento che si deresponsabilizza sempre, minimizza i suoi gesti, li giustifica, attribuisce a lei le colpe. «Ti ho menato perché hai guardato un
altro», per intenderci. Dall’altra, c’è la maltrattata che usa l’empatia non per annusare il pericolo, ma per cercare, una volta di più, di cambiare quell’uomo. «Se io guarderò sempre per terra lui si comporterà bene con me». Questa, è la logica disturbata che guida le loro mosse. E disturbati lo sono entrambi, non solo lui.

Usate l’intuito per conoscerlo davvero

In definitiva, non è possibile pensare che una donna in una dinamica di maltrattamento utilizzi la sua empatia. Sai quando, invece, sarebbe davvero fondamentale usare quella intelligenza emotiva di cui parli? Ai primi appuntamenti, quando lui inizia a mostrare segnali di prevaricazione, la svaluta, la vuole isolare da amici e parenti con la scusa che non può fare a meno di lei. E magari la fa sentire in colpa perché «lei ci ha messo troppo a truccarsi e ora c’è la coda in autostrada».

Credimi: non c’è donna maltrattata che non abbia vissuto questa escalation. Invece di usare la sua capacità di mediazione per riportare la pace con lui, lei dovrebbe sfruttare l’intuito e l’empatia, orientarla su di sé. E accorgersi che, nella ricerca del principe azzurro, sta cadendo nelle grinfie di quello nero.

Dobbiamo coltivare l’auto-empatia!

È questa è la scommessa di oggi: che questi discorsi facciano crescere donne più amorevoli verso se stesse e più abili a difendersi. Le ragazze devono imparare a usare la sensibilità a proprio vantaggio e non, come spesso è stato finora, per giustificare chi le vessa. Quelle già coinvolte in una dinamica violenta, invece, vanno protette mentre provano a liberarsene. Questo, forse, è mancato là dove una donna è stata uccisa: la possibilità di proteggerla davvero. Tra l’altro, denunciare il prima possibile è anche l’unica modalità di tutelare un uomo dal diventare un assassino. La protezione, insieme
all’educazione, sono le vere armi da sviluppare.

 

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